Internazionalizzare è davvero così complicato?
- Davide Mitscheunig
- 18 feb
- Tempo di lettura: 2 min

C’è una paura che accomuna tanti di noi: l’idea che portare la propria azienda all’estero sia un’impresa titanica, piena di rischi, costi e complessità ingestibili. È una paura che capisco bene.
Quando ogni giorno lotti con tasse, burocrazia e margini sempre più stretti, pensare di aggiungere la variabile “estero” sembra quasi masochismo. Meglio rimanere nella zona conosciuta, anche se sempre più stretta, giusto?
Ma oggi, con un mondo che cambia velocemente, restare fermi non è solo una scelta che possiamo definire prudente, bensì diventa un rischio enorme.
L’incertezza geopolitica tra l’Occidente a “Stelle e Strisce”, l’Asia e l’Europa ormai palesemente inesistente nella capacità di contare qualcosa e sempre più schiacciata nel mezzo, rendono il futuro incerto per tutti.
Quindi mi chiedo: “E se il nostro mercato locale dovesse diventare ancora più instabile? Dove andremmo a finire?”
La verità, anche se scomoda, è che mentre noi ci difendiamo dagli attacchi esterni, ma anche dai costanti attacchi interni, al nostro Paese, che le “istituzioni” immancabilmente ci fanno un giorno si e l’altro pure, sia come imprenditori che come cittadini, altri crescono, conquistano mercati, e portano a casa margini che qui sembrano un miraggio.
La complessità spaventa, lo so. Eppure, ho visto aziende che pensavano di non farcela riuscirci, semplicemente perché hanno trovato la strada giusta, fatta di piccoli passi, risorse che esistono già e competenze che non devono inventarsi da zero.
Vendere all’estero, internazionalizzarsi non significa buttarsi nel buio, ma accendere una luce su un percorso già tracciato da altri. La domanda non è “posso farlo?”, ma “posso permettermi di non provarci?”.
Ci penso spesso. E ogni volta mi convinco che la vera sfida non è partire, ma decidere di non restare fermi.
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