Dove si muove il capitale globale: intervista a David Solomon, CEO di Goldman Sachs.
- Davide Mitscheunig
- 30 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 13 mag
Viviamo in un’epoca in cui la geografia del capitale si sta ridefinendo sotto i nostri occhi. L’intervista rilasciata da David Solomon, CEO di Goldman Sachs, durante un evento a Oslo nel 2025, è una lente privilegiata per leggere le dinamiche più profonde di questo cambiamento. Oltre i titoli dei giornali, oltre l’ossessione per le elezioni o per i tassi d’interesse, emerge una domanda silenziosa ma fondamentale: dove si sposterà il baricentro della crescita nei prossimi dieci anni?
L’incertezza come freno invisibile alla crescita.
A cento giorni dall’insediamento della nuova amministrazione statunitense, l’effetto più tangibile non è stato un terremoto politico, ma un raffreddamento strategico. Le aziende trattengono gli investimenti. I CEO rallentano le assunzioni. I consumatori spendono meno. L’incertezza su commercio e regolazione fiscale si è trasformata in un moltiplicatore di prudenza.
La finanza ha risposto in modo composto, ma eloquente: il mercato azionario ha rivisto al ribasso le valutazioni, soprattutto tra i giganti tech. Più che un crollo, un riposizionamento. Una pausa, in attesa che si chiariscano le regole del gioco.
In questo contesto, il dollaro resta una valuta di riserva, ma il suo primato viene messo sotto osservazione. Non per mancanza di potere, ma per eccesso di debito. La solidità di lungo periodo non basta se il breve periodo appare disordinato.
Il Medio Oriente non è più una scommessa.
Una delle intuizioni più forti offerte da Solomon riguarda il ruolo crescente del Medio Oriente come attore stabile nel panorama globale. Lontani dai cliché del passato, i fondi sovrani del Golfo sono oggi partner di riferimento per le principali banche d’investimento e asset manager mondiali.
Non si tratta di un ripiego rispetto agli USA o all’Asia, ma di una nuova centralità costruita sul capitale paziente, visione a lungo termine e propensione strategica all’allocazione globale. Per chi lavora sull’internazionalizzazione delle imprese, questo è un segnale forte: il futuro non è necessariamente dove è sempre stato.
In parallelo, l’attenzione al mercato statunitense rimane alta. Gli investitori del Medio Oriente non stanno fuggendo, stanno semplicemente diversificando. E lo stanno facendo con più lucidità di molti europei.
Europa: da freno a leva, ma a una condizione.
L’Europa è da tempo vista come un gigante economico dal passo corto. Eppure, nell’intervista emerge una visione diversa: il potenziale europeo è reale, ma vincolato dalla complessità normativa, dall’eccesso di frammentazione e da una cronica difficoltà a pensarsi come sistema.
Solomon individua nella semplificazione regolatoria, nell’unione dei mercati dei capitali e nel sostegno ai campioni industriali europei i tre assi portanti di una possibile rinascita del continente come polo d’attrazione per investimenti internazionali.
Ma serve un salto culturale: agire in chiave sistemica e non nazionalistica, progettare politiche fiscali espansive dove necessario, parlare finalmente il linguaggio dell’industria e non solo quello della burocrazia.
Per gli imprenditori italiani, questa riflessione è centrale: l’Europa è ancora la nostra casa, ma non può più essere la nostra unica visione.
Le aziende che si muovono ora avranno un vantaggio competitivo.
L’intervista offre una lettura disincantata ma non pessimista: la crescita non è finita, sta solo cercando nuovi equilibri.
Le operazioni di M&A sopra i 500 milioni sono in aumento. Il private equity non si è fermato. Le IPO rallentano, sì, ma non per mancanza di idee. Il motore non è rotto: sta semplicemente cambiando carburante.
In questo scenario, le imprese che sapranno leggere i segnali deboli e muoversi prima, avranno una posizione di vantaggio non replicabile. Non è il momento delle grandi espansioni, forse. Ma è il momento della riposizione strategica, della costruzione di alleanze e della creazione di asset relazionali nei mercati che cresceranno, anche quando l’Occidente esita.
Questo richiede nuove competenze. Richiede visione. E, soprattutto, richiede una forma di leadership che sappia scegliere quando tutti aspettano.
Uno sguardo in avanti.
C’è un filo rosso che attraversa tutta l’analisi di David Solomon: il capitale si muove dove trova chiarezza, progettualità e ambizione sistemica. L’incertezza non è più solo un rischio, ma una variabile strutturale. In questo contesto, la domanda non è più “quando tornerà la stabilità?”, ma “come possiamo essere protagonisti in un mondo instabile?”.
La nuova geografia dell’economia non verrà annunciata da breaking news. Si costruirà giorno dopo giorno, nei consigli di amministrazione, nei piani industriali, nelle scelte di chi guarda oltre il trimestre.
Come imprenditori, la vera domanda da porsi oggi non è “dove sono le opportunità?”, ma “chi vogliamo essere quando le opportunità si sposteranno altrove?”
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